Fare la spesa non equivale (o dovrebbe equivalere) a prendere dallo scaffale tutto ciò che ci attira e “buttarlo” nel carrello per riempirlo, perché sempre di più (e per fortuna) emerge la consapevolezza che la salute si costruisce anche a tavola, con un’alimentazione il più possibile sana.
Ciò però, spesso e volentieri, si scontra con alcuni aspetti tipici della vita moderna, come la frenesia dei ritmi, che rende difficile dedicare grande tempo alla preparazione dei pasti, le ristrettezze economiche, che spesso inducono ad acquistare le materie prime più economiche e non le migliori, le “falsità” dei grandi marchi industriali.
È proprio su quest’ultimo aspetto che intendiamo soffermarci, in particolare per quanto riguarda il comparto dei succhi di frutta: siamo certi che quello che beviamo sia naturale al 100%?
Per rispondere bisogna conoscere l’evoluzione storica subita dalla normativa di settore.
Fino al 1932 si poteva etichettare come succo di frutta solo il liquido ottenuto spremendo il frutto in questione.
Poi, a partire dal 1982, una norma europea ha introdotto una distinzione tra succhi di frutta, vale a dire il prodotto della spremuta, e il nettare o il “succo e polpa” che invece si ottengono addizionando alla spremuta una parte di acqua, con lo scopo di ottenere un liquido meno denso e più gradito al consumatore.
Tuttavia, per il principio di semplificazione tipico della nostra società, spesso vengono definiti succhi di frutta anche quelli che in sostanza sono nettari!
Ogni nettare, per legge, contiene un quantitativo minimo di frutta (ad esempio 45% per quello di pesca e 40% nel caso dell’albicocca).
Non solo della percentuale di frutta si è occupata la legge, ma anche di quella di zuccheri che vengono utilizzati negli impianti appositi per realizzare e confezionare succhi di frutta, soprattutto nel caso di frutti come limoni o marasche che possiedono naturalmente un gusto amaro, che poco incontra le preferenze del grande pubblico: ragion per cui nel 1997 il ministro dell’Industria ha autorizzato “l’adozione di resine adsorbenti” che riescono nell’intento, lì dove anche lo zucchero fallisce.
Lo stesso decreto ha fissato i limiti di zuccheri che possono essere aggiunti ai nettari e autorizzato pure l’impiego del miele.
Nel 2004 si è poi deciso che succhi e nettari potessero essere addizionati con vitamine e sali minerali (senza previa autorizzazione o dichiarazione): si tratta nella maggior parte dei casi di acido ascorbico (vitamina C) che preserva il colore, e betacarotene (vitamina A) ad azione antiossidante.
E si è stabilito pure che:
- la percentuale minima di frutta non potesse scendere al di sotto del 25%
- in etichetta dovesse essere riportata anche l’evenienza che il prodotto fosse stato ottenuto in parte da frutta e in parte da succo concentrato (in precedenza l’informazione doveva essere chiarita solo se si erano utilizzati in toto succhi concentrati, sia in polvere che liquidi, anziché frutta).
Tuttavia, rimaneva la possibilità di non citare in etichetta l’eventuale impiego di frutta congelata anziché fresca.
Dieci anni dopo, col Decreto Legislativo 19 febbraio 2014, n. 20, sono state introdotte altre novità:
- anche il pomodoro è entrato nel novero della frutta, per cui può essere utilizzato per la produzione di succhi
- nei succhi di frutta non potranno più essere addizionati zuccheri aggiunti o edulcoranti
- nei nettari di frutta si potranno aggiungere zuccheri (o miele o edulcoranti) fino al 20% del prodotto finito (ma tutto andrà chiaramente indicato in etichetta)
- il tipo di frutta andrà sempre specificato se si impiegano due frutti (entrambi da dichiarare in etichetta e in denominazione), mentre nel caso di tre o più tipi di frutta la denominazione sarà quella generica di “più specie di frutta”, “più frutti”, o simili.
Insomma, è chiaro che tutto quello che ci mettiamo in pancia deve prima passare per un’attenta analisi degli occhi!